Una nota leggenda vuole che il caffè sia stato sperimentato per la prima volta da un pastore etiope dopo aver notato gli effetti eccitanti conseguenti all’ingestione della pianta da parte delle proprie capre. Stando alle testimonianze pubblicate in relazione alle sostanze stimolanti ingerite dagli animali, la leggenda potrebbe avere qualche serio fondamento.
Che molti animali facciano uso di sostanze psicoattive è cosa assodata tuttavia pare che tra i mammiferi le capre siano estremamente attratte dal consumo di certi vegetali stimolanti. Di capre caffeinomani narra il frate Antonio Naironi nel 1671 riportando la storia del pastore etiope Kaldi che vide il suo gregge cibarsi di strane bacche rosse che inducevano effetti eccitanti che il pastore sperimentò poi su se stesso. Visti gli strani effetti, le bacche furono prudentemente consegnate a un santone islamico che, considerandole malefiche, le scaraventò nel fuoco. L’aroma che ne scaturì indusse il religioso a bere l’infuso preparato con i chicchi tostati sbriciolati, gustando così la prima tazza di caffè della storia.
Non molto distante, nello Yemen, sempre delle capre sembrano aver fatto scoprire all’uomo un’altra pianta stimolante detta “il fiore del Paradiso”. Una leggenda yemenita, simile a quella del caffè, racconta di un pastore incuriosito dall’ebbrezza di una delle sue bestie dovuta al consumo delle foglie e dei germogli dell’arbusto di Catha edulis ovvero il khat. L’uomo assaggiò le foglie ricavandone un effetto euforizzante che gli consentì di stare sveglio tutta la notte. La coltivazione del khat è oggi diffusa in Yemen e in Etiopia e i contadini locali hanno diretta conoscenza di quanto le capre siano particolarmente attratte da questa pianta.
Altre testimonianze a conferma della singolare attenzione delle capre per le sostanze dagli effetti inebrianti o curativi risalgono a Eliano, Aristotele, Plutarco e ai nativi americani. E in tutte queste curiose narrazioni vi è il comun denominatore di un insegnamento trasmesso dagli ovini agli esseri umani.
Per approfondire: Giorgio Samorini, Animali che si drogano, Telesterion, 2000.